Danno morale, la resurrezione
Vi proponiamo un approfondimento su una sentenza della Corte di Cassazione Civile riguardante la sempre dibattuta questione del riconoscimento del risarcimento per il danno morale. Ebbene, gli ermellini sono giunti alla conclusione che il danno morale costituisca una voce di pregiudizio non patrimoniale da tenere distinta dal danno biologico e dal danno nei suoi aspetti dinamico relazionali di cui all’art. 138 d.lgs. 209/2005, con la conseguenza che va risarcito autonomamente.Ormai da quasi dieci anni si dibatte, in giurisprudenza e in dottrina, circa l’esistenza – sul piano delle idee platoniche più che non su quello empirico della realtà fattuale – del ‘danno biologico’ e del ‘danno morale’ intesi quali entità concettualmente distinte tra loro nonché degne e meritevoli, ciascuna, di una specifica e precipua connotazione e, quindi, di un separato ristoro.A tal proposito, nel lessico giuridico, si è soliti ricorrere all’avverbio ‘ontologicamente’ che è di derivazione ellenica laddove con la parola ‘ontologia’ (di etimologia greca antica e afferente al concetto di ‘essenza’ dell’essere) si fa riferimento, per l’appunto, alla essenza/esistenza di una cosa come separata, distinta, autonoma rispetto a tutte le altre.
Taluni potrebbero, forse non a torto, derubricare tale controversia alla stregua di un ozioso passatempo assimilabile a quello proverbiale che, nella filosofia scolastica, impegnava i dotti in assidue dispute intorno al sesso degli angeli.
In effetti, a far data dalle arcinote sentenze di San Martino, è stato tutto un susseguirsi di contributi dottrinali e arresti giurisprudenziali volti a raccomandarci di evitare indebite sovrapposizioni tra voci di danno che ‘ontologicamente’ non erano distinguibili l’una dall’altra perché assorbite nella medesima sovra-categoria onnicomprensiva del danno non patrimoniale.
Insomma, e altrimenti detto, la sofferenza morale e il cosiddetto pregiudizio biologico rappresentavano – secondo tale diffusa corrente di pensiero – nient’altro che due voci appartenenti a un’unica entità categoriale qualificata, per l’appunto, come ‘danno non patrimoniale’. Ove poi qualcuno avesse gradito esercitarsi o addirittura dilettarsi – ci ammonivano i nuovi dotti due punto zero – a sezionare tale univoca voce con fini meramente descrittivi, poteva farlo, purché non scordasse che l’unitaria categoria del danno non patrimoniale era letteralmente ‘atomica’, cioè non scomponibile in ulteriori sottocategorie.
Ma il vento è cambiato.
Infatti, con una sentenza depositata il 13/10/17, la nr. 24075/17, la Corte di Cassazione sembra, a tutti gli effetti, prendere le distanze dal summenzionato orientamento. Nell’occasione, i giudici di legittimità sono stati chiamati a esprimersi su una pronuncia della Corte d’Appello di Perugia che aveva negato la risarcibilità del ‘danno morale soggettivo’. I giudici umbri, in buona sostanza, avevano confermato la decisione di primo grado del Tribunale con la quale era stato riconosciuto alla vittima di un sinistro il solo pregiudizio biologico. E ciò proprio sulla base della ritenuta non autonoma liquidabilità di quella sofferenza psichica transeunte in cui si traduce, in definitiva, il danno morale.
Bene. La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso censurando a chiare lettere la tesi secondo cui il danno morale non è più ‘autonomamente’ valutabile e risarcibile. Un tale convincimento, secondo gli Ermellini, confligge con i principi affermati, in pregresse occasioni, proprio dalla Suprema Corte. Nel richiamarsi ad essi, il Collegio scrive expressis verbis che – al di fuori dell’ambito applicativo delle lesioni micro-permanenti di cui all’art. 139 del D. Lgs. 209/05 – “il danno morale costituisce una voce di pregiudizio non patrimoniale ricollegabile alla violazione di un interesse costituzionalmente tutelato, da tenere distinta dal danno biologico e da quello afferente gli aspetti dinamico relazionali della persona. Pertanto, il danno morale va risarcito autonomamente, ove provato, senza che ciò comporti alcuna duplicazione risarcitoria”.
Trattasi, a tutti gli effetti e senza esagerazioni, di un epocale sdoganamento, se non proprio sul piano sostanziale, quantomeno su quello lessicale e concettuale.
È come se la Corte di Cassazione avesse ‘resuscitato’ il compianto ‘danno morale’ dopo che, per due lustri, ne era stato dato per certo il decesso e ne erano state celebrate le esequie.
Secondo la Corte, non solo si può utilizzare il termine danno per qualificare la sofferenza soggettiva transeunte, ma anzi tale impiego è “concettualmente, ancor prima che giuridicamente, legittimato dalla circostanza che lo stesso legislatore ne ha fatto uso in taluni recenti interventi normativi (D.p.r. 03.03.09 n. 37 e d.p.r. 30/10/09 n. 181)”.
Si badi bene: la Corte non ci sta dicendo che bisogna cambiare il senso delle storiche pronunce gemelle del 2008; sta, piuttosto, stigmatizzando tutti coloro che hanno reiteratamente officiato i funerali del ‘danno morale’ inteso come categoria ontologicamente distinta da quella del danno biologico.
Un conto, infatti, è sostenere che la species del danno morale rientra – alla pari del biologico e dell’esistenziale – nell’alveo di quell’ampio genus designato come ‘danno non patrimoniale’; un altro conto è sostenere che il danno morale non esiste più in quanto tale: questa affermazione è, secondo la sentenza in commento, fuorviante se non addirittura errata tout court.
L’insidia che i giudici devono, in ogni caso, evitare è la deprecata duplicazione di risarcimento rispetto a danni che possano, nella concretezza della procedura di estimati compiuta dallo stesso giudicante, configurarsi come sovrapponibili quando non persino identici. Ma se tale rischio non c’è, se cioè si discorre di due categorie ontologicamente diverse (che liberazione poterlo dire!) quali il danno morale e il danno biologico, allora i pregiudizi rientranti rispettivamente nell’una e nell’altra andranno risarciti entrambi. Infatti, laddove dimostrati, il ristoro di ambedue non potrebbe dar luogo ad alcuna forma di indebita locupletazione stante la loro irriducibile e non ricusabile diversità.
Ne consegue che l’unica avvertenza, cui sarà tenuto il giudice di merito in sede deliberante, sarà quella di evitare la liquidazione della componente della sofferenza soggettiva attraverso l’applicazione di un automatismo. Tale sarebbe, ad esempio, la entificazione del danno morale in una misura corrispondente a una quota parte proporzionale del valore del danno biologico. Qualora, però, il giudice eviti di incorrere in un simile abbaglio e allorquando rammenti il dovere di giustificare e motivare la propria decisione, egli potrà senz’altro dar corso al risarcimento del danno morale purché abbia cura di render conto del criterio di personalizzazione adottato nel caso concreto.